lunedì 21 marzo 2011

da "Io e Gabriele": la gita dell'asilo (maggio 2009)

Oggi all’asilo penso di aver dato il peggio di me stessa. Ma ne valeva la pena, ed anche se ho alzato troppo la voce, non me ne pento, perché ormai ho capito che in questo mondo, in questa parte di mondo, funziona così, riesce ad ottenere qualcosa solo chi urla più forte, chi si arrabbia di più, chi si dimostra più energico ed aggressivo, e così non sto nemmeno a perdere tempo adottando dei modi urbani e civili, ne ho così poco. Proprio io che ho una natura in fondo contemplativa e riservata, quasi misantropa, a volte. Eppure, ormai, sono così abituata a comportarmi così, come questa società mi ha forgiata, che la mia vera natura l’ho quasi dimenticata, e della bambina che al Valentino, il pomeriggio, aspettava che tutti i bimbi fossero andati a casa per cena per godersi le giostre da sola e in santa pace, non rimane più quasi nulla, se non il rimpianto per le cose che non ci si può più permettere. Ora sono sempre attiva, attenta, pronta, in prima fila su tutto, informata e agguerrita. E ottengo quello che ritengo sia giusto. E questa volta l’ho ottenuto per te, Gabriele, anche se a farci un po’ le spese sono stati i tuoi piccoli compagni, innocenti come te. Ma io sono la tua mamma, e ho un ruolo preciso, ruolo che spesso non viene sottolineato, tale è la potenza fagocitante della parola “mamma”, che rimanda a coccole, affetto, pappe e pannolini. Ma non è solo questo, una mamma. E’ anche e soprattutto colei che ha il dovere di tutelare chi ancora, muovedo i primi passi incerti nel mondo (non è il tuo caso, tu i tuoi passi ancora non li hai mossi, e chissà se li muoverai mai. Ma non ti preoccupare, è solo un modo di dire), non ha ancora gli strumenti per difendersi o imporsi. Significa fare i tuoi interessi, e vigilare affinchè vengano rispettati i tuoi piccoli diritti di bimbo. Di bimbo disabile. E così ho fatto. Ieri mattina, quando ti ho portato all’asilo, la tua maestra mi ha annunciato, con fare leggero: “ah, tra una settimana c’è la gita sul tram storico, ma Gabriele non può venire perché non c’è il posto invalidi, sul tram, e quindi non possiamo portarlo. O se lo tiene a casa oppure lo porta qui e lo mettiamo in un’altra sezione che non va in gita quel giorno”. Così, semplicemente. E io, altrettanto semplicemente e tranquillamente, visto che sono abbastanza lenta nei miei pensieri e nelle mie reazioni, rispondo “ok, va bene, allora”, e ce ne andiamo tranquilli a casa io e te. Poi arriva la notte. E la notte io ho il vizio di pensare, rimuginare, mettere in ordine i pensieri, oltre a dormire. E mi gira questa frase in testa “o se lo tiene a casa o lo porta qui in una sezione che non va in gita”. Ma perché? Penso alle gite che hai fatto gli scorsi anni, nel vecchio asilo: le maestre ti avevano scattato le foto e così ti rivedevo all’ agriturismo, mentre sorridente davi da mangiare ai conigli o mentre addentavi schifato una mela, oppure quando vi han portato al mare, e ti hanno ritratto in acqua in braccio alla maestra Anna, felice e sorridente; o quando, ancora al nido, siete andati in treno fino all’Acquario di Genova, e io ero preoccupatissima a lasciarti andare così lontano, in treno e così piccolo. E quest’anno, che oltretutto la gita è molto più semplice, più vicina, nel senso che non andate né in qualche agriturismo di paese, né al mare, né in altri luoghi “esotici” ma ve ne state a Torino sopra un tram, no. Quest’anno per te niente gita. A casa! O all’asilo mentre i tuoi compagni sono in giro beati a divertirsi. Virginia, Anna, Beniamino, Nizar..già, Nizar. E qui mi sale la carogna. La malinconia e la tristezza lasciano il posto alla rabbia. Ma come, a che serve allora insegnare l’integrazione a questi bimbi fin dalla più tenera età, fare i pasti che almeno un paio di volte la settimana comprendano kebab o cous cous, togliere il crocifisso dalle classi oppure ogni altro simbolo che caratterizzi un gruppo, un’etnia, una religione o una razza, se poi dimentichiamo quelli che sono ancora i più discriminati , i più svantaggiati da tutti, i disabili? Per queste creature non è valido il principio di discriminazione così spesso ostentato e sbandierato? Sono solo un peso per i compagni, per le maestre, per la società? Oppure ti hanno solo dimenticato, tu e la tua sedia a rotelle, non han pensato che forse anche tu avevi piacere di fare quella gita invece che stare chiuso in classe? Basta, ho deciso. Domani a scuola dirò tutte queste cose con calma alla maestra, sarò civile ma determinata, nel difendere quello che penso sia un tuo sacrosanto diritto alla socialità e alla non-emarginazione. E invece no. Arrivo all’asilo e, reduce da una rabbia covata per tutta la notte, appena vedo la tua maestra la investo: un fiume di parole miste a insulti, di urla, di invettive, il tutto contro la povera tapina che è rimasta sconcertata da tanta furia! Ma il succo del discorso è ineccepibile, Gabriele, ed è forse per questo che la tua maestra si è sorbita il mio torrente di parole senza ribattere, perché sapeva che, a parte la forma, nella sostanza io avevo ragione. Perché nessuno si è preoccupato preventivamente di verificare che sul dannato tram storico ci fosse la possibilità, per i disabili in carrozzina, di salire ed accomodarsi? Perché, una volta verificata la mancanza di tali elementi, non si è provveduto a cambiare gita, destinazione, mezzo? Perché nessuno ha pensato a queste cose, che dovrebbero essere abbastanza ovvie per delle maestre non più di primo pelo e che quindi, negli anni, di gite con bimbi disabili ne avranno pure organizzate! Perché? Perché si integrano, giustamente, tutti e tutto e non tu? Dove hanno la testa queste maestre? Insomma, la maestra mi balbetta allora che posso venire anche io sul tram, ti posso accompagnare io, sotto la mia responsabilità, oppure che io e te possiamo seguire l’allegra comitiva in macchina, scortare il tram di gitanti. Divento una belva: “no, Gabriele viene sul tram, con voi e sotto la vostra responsabilità, come tutti gli altri bambini!!”. Urlo, minaccio di parlare della cosa alla direttrice. E lo faccio. Prenoto un appuntamento con la direttrice per il giorno dopo. E quando entro nel suo ufficio, carica e combattiva come il giorno precedente con la maestra balbettante, lei non mi lascia nemmeno il tempo di aprire bocca. Si scusa per le maestre, è mortificata, mi dice che non darà mai l’autorizzazione a fare questa gita, organizzata in questo modo, che verrà cambiata la destinazione, il mezzo, tutto. Di scusare l’incidente, che Gabriele ha diritto ad andare in gita con gli altri e come gli altri, che non dovrà restarsene a casa. Ho vinto. Abbiamo vinto, Gabriele, ma che vittoria di Pirro è mai questa, che fa cambiare la gita tanto pregustata da ventiquattro bimbetti senza colpe e che si vedevano già con il naso fuori dal finestrino del famoso tram a causa della dabbenaggine di un paio di maestre attempate e a fine carriera, che li fa andare a vedere il museo di arte contemporanea all’età di cinque anni perché così, su due piedi, non si è trovato di meglio, una vittoria per cui ho dovuto ricorrere proprio a ciò che invece dovrebbe essere alleggerito, non fatto pesare? Insomma, che vittoria è se per raggiungere l’obiettivo di non farti discriminare per la tua invalidità, ho dovuto invece sbandierarla e urlarla?


[CA1]Gita all’asilo

2 commenti:

  1. non ho parole... cioè, ce ne sarebbero tante...
    ti aggiungo alle "belle persone" che ho incrociato qui sul web!^^

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  2. Ciao, non ti nego che leggendo questa tua esperienza mi è scesa una lacrima. Sono stata insegnante di sostegno di un bambino nella stessa situazione di Gabriele, non ti dico le lotte mie e di sua madre, per far valere i suoi diritti. Ti posso dire solo una cosa, sei una mamma fantastica, proprio come il tuo cucciolo e non ti arrendere mai!!!

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