mercoledì 25 marzo 2015

UN BAMBINO SU SEDIA A ROTELLE? ALLORA NON DOVEVA PORTARLO AL RINFRESCO, ANCHE SE...

anche se il rinfresco è in una  Chiesa.
Anche se la Chiesa non è solamente una Chiesa, ma un Santuario, uno dei più amati in Torino.
La Consolata.
La Consolata, il magnifico santuario nel cuore di Torino e nei cuori dei torinesi, la Consolata, la Patrona  di Torino da trecento anni, il Santuario dove  respiri l'atmosfera solenne resa tale dai grandi Santi che l'hanno frequentato, da San Giovanni Bosco a San Giuseppe Cafasso al beato Piergiorgio Frassati.
La Consolata, dove si respira un'aria magica, tanto che persino Rol era un assiduo frequentatore.
La Consolata, a cui sono devota e che tanto, lo so, mi ha aiutata, anche nella recente mazzata che mi sono beccata per la mia salute, quando, per telefono, la dottoressa mi comunicò l'esito della biopsia dicendomi di avere un tumore al seno da operare subito, e io, "guarda caso", stavo passando in macchina proprio sotto il santuario, e, guardando il alto, vidi il crocifisso che svettava verso il cielo e capii che la Consolata mi avrebbe aiutata e guarita.
Insomma,  la Consolata, là.
La Consolata, che ospita nel suo interno un gruppo di fedeli detto "amici della Consolata".
Un'associazione di volontari che si occupano di varie mansioni all'interno del Santuario, di aiuto nella gestione del Santuario stesso ed ausilio ai fedeli  per visite guidate o altro.
Sono amica, degli amici della Consolata.
O perlomeno, con alcuni di questi.  Quelli che conosco. Persone gentili, premurose, giovani e anziane, che  ti salutano con un sorriso schietto e aperto, e non con un tirato "buongiorno", giusto per buona educazione. Ne ho stima, ed alcuni li reputo più di semplici conoscenti, per quanto non al livello di veri "amici". Disponibili all'aiuto, alla conversazione, pronti ad ogni occasione a darsi da fare, ad aiutare, a organizzare.
Come una domenica mattina di qualche mese fa.
Quella domenica, era  "festa", alla Consolata. 
Si salutava il nuovo rettore entrante, e si porgeva un saluto a quello uscente, con un rinfresco dopo la funzione del mattino. Un rinfresco semplice, ma  curato, con salatini, tartine e succhi di frutta sotto le arcate dei portici del cortile interno, offerto per i fedeli e per i suddetti "amici" della Consolata.
Anche io e Gabriele andiamo: oltretutto siamo invitati! Un giovane e gentile sacerdote, mentre usciamo alla fine della messa, saluta Gabriele e gli dice: "mi raccomando, vai al rinfresco, ci sono i salatini e la Coca Cola!"
E che, ce lo facciamo ripetere mica due volte?
Per quanto Gabriele non ami la ressa e lo sgomitamento da rinfreschi gratis, voglio portarlo, fargli respirare un po' di aria di festa, di allegria, fargli assaporare il dolce sapore della condivisione di  un attimo di serenità tra quasi-amici e anche, inutile negarlo,  quello di due salatini, di cui è ghiotto.
Percorriamo il cortile per avvicinarci al porticato dove è allestito il rinfresco.
Perchè il rinfresco  è allestito proprio lì, in uno spazio lungo sei, otto metri al massimo di lunghezza e di nemmeno due per larghezza: la larghezza di un porticato. In quei due metri  di larghezza ci devono stare: 1) banchetti colmi di vassoi di salatini, bibite e stoviglie varie in plastica  2) personale di servizio che gentilmente ti porge cibi e bevande, e che anche quello il suo spazio lo occupa 3) e infine, la ressa di gente, ovviamente noi compresi, che si affanna per riuscire a beccare un salatino, una pizzetta o un bicchiere di Coca Cola.
Sapete tutti come va, vero,  ai rinfreschi, e per di più gratis? 
Ecco, anche per i rinfreschi nelle Chiese, la storia è la stessa, e anche qui  tutti cercano di arrivare per primi all'acqua della piscina di Bethesda lasciando indietro e fregandosene bellamente del povero invalido che mai riesce ad arrivare all'acqua in tempo, scavalcato da tutti - come da una ben nota ma poco applicata parabola di Gesù (nota 1: Giovanni, 5; 1-9). 
In altre parole, tutti si buttano sui banchetti colmi di vivande fregandosene di chi rimane dietro o ha  dei problemi nel muoversi o semplicemente non ha  l'indole di sgomitare per andare a ingozzarsi .
Io questa indole in realtà ce l'ho   - non ricordo più se congenita o formata negli anni da lungo esercizio di sopravvivenza -  ma Gabriele no. 
Lui non ama la ressa, non ama buttarsi nella  confusione, è discreto e gentile e non sgomita nella folla, impresa in effetti molto ardua anche per un panzer come me.
E inoltre, noi in  più abbiamo anche un impiccio: la carrozzina.
La carrozzina di Gabriele. 
Grande, perchè lui ormai è praticamente un ragazzino. 
Ingombrante, perchè munita di joystick, motore e batteria.
Pesante, perche tra motore, batteria e Gabriele sopra, agli ottanta chili ci arriviamo tranquillamente.
E pericolosa: in fondo  è una piccola auto senza carrozzeria, e quindi va utilizzata con prudenza, soprattutto negli spazi ad alta densità di persone: beccarsi ottanta chili su un piede, magari a causa di un'incauta manovra, molto piacere non fa di certo.
E quindi, disinserisco il motore e attivo la modalità manuale: ora è una normale carrozzina a spinta, per quanto più pesante, ma rimane comunque ingombrante: lo spazio fisico occupato da noi, quello non possiamo proprio eliminarlo, almeno finchè il Buon Dio deciderà di lasciarci su questa terra.
Così, spento il motore, ci adattiamo ad andare in modalità manuale, pian pianino, cercando di non urtare nessuno, di non farci troppo notare, di non disturbare, andando avanti a colpi di "scusi", "permesso", "per cortesia", "grazie", "gentilissimo", "pardon" e via scusandoci della nostra ingombrante presenza.
Finchè..
Finchè il cretino di turno si  paventa all'improvviso.
Pure qui.
Pure alla Consolata.
E lo fa nel modo più umiliante che ci sia.
Sotte le spoglie, infatti, di un tranquillo anziano signore torinese, si cela inaspettato l'imbecille di turno.
Che  con la bocca piena, una pizzetta nella destra e un salatino nella sinistra, comincia a urlarmi, in mezzo a tutta la gente sgomitante: "Ah, ma  proprio qui deve portarlo, il suo bambino, con 'sta sedia a rotelle?? Ma è proprio senza cognizione!!".  E  si  fa un cenno con la mano sulla tempia ad evocare il gesto "ma sei proprio svitata, matta!", mentre con gli occhi fa l'espressione di dire..."ma poveri noi, guarda che razza di cretina deve venire qui, lei e la sua carrozzina col figlio sopra!! Non vede che non c'è spazio per tutti? Non vede che se ci siamo noi non ci sta la carrozzina e se ci sta la carrozzina non ci stiamo più noi e non possiamo più ingozzarci?? Non vede che stiano mangiando? Non vede che ci sta disturbando??"
Se ci fosse Dante a guardarmi, direbbe che "più che la mortificazione potè la rabbia" (al posto del suo "più che il dolor potè la fame"). 
Infatti, ero così mortificata che sarei voluta sprofondare: per me, per le urla, per il rimprovero, per la gente che ci guardava, ma soprattutto per Gabriele, di cui la bestia non ha tenuto minimamente conto: d'altronde, è solo un bambino su sedia a rotelle, no? Gabriele, che sorridente pregustava  un salatino, e che subito ha abbassato gli occhi e il cui sorriso ha lasciato il posto ad un'espressione triste e mortificata, sentendosi in colpa per essere stato lui la causa di tutto. 
A quella vista, una rabbia sorda che mi è uscita da dentro e che mi è schizzata dalla testa, dalla bocca e dagli occhi , per la precisione, facendomi urlare a mia volta, di modo che tutti i presenti potessero sentirmi bene "E perché, noi non abbiamo il diritto di partecipare al rinfresco?? Perchè abbiamo la carrozzina, per questo non dobbiamo disturbare  gli altri, perchè abbiamo una sedia a rotelle e non abbiamo il diritto anche noi di essere al rinfresco con gli altri??? Ma vada, vada a ingozzarsi, vada, vada anche per noi!!!"
Una piazzata vera e propria.
Urlo talmente forte che penso mi abbia sentito persino il cielo.
Il cretino abbassa gli occhi.
Silenzio.
Per pochi secondi attorno a noi si fa un silenzio sospeso.
Ci guardano.
Ci fanno pure spazio.
Mortificata, prendo una tartina per Gabriele, e faccio per andarmene. 
La voglio prendere appositamente, per consolarlo, sì, ma soprattutto per mostrargli che, quando non ci sarò più io a urlare e difendere i suoi diritti, non dovrà mai chinare la testa, non dovrà mai cedere  agli stupidi o prepotenti, dovrà sempre farsi valere e rispettare.
E poi facciamo per andarcene.
Io, Gabriele, la carrozzina e la pizzetta.
Nel silenzio, nel vuoto, nello spazio - tanto - che improvvisamente si è creato attorno a noi.
Io e lui, via, via da questi ipocriti, da questi  "perfetti cristiani", penso, che l'attimo prima sono in Chiesa a scambiarsi il segno della pace e il momento dopo ritornano bestie! Bestie, anche se hanno l'aspetto di un distinto e anziano signore!
E mentre ce ne andiamo, sento una voce.
Un gesto..qualcuno mi chiama, mi tira gentilmente la giacca, discretamente.
"Signora...signora, prenda le mie tartine per il bambino....ne prenda altre, se le porti a casa....E scusi quella persona. E' il marito di una volontaria, è stato maleducato, le chiedo scusa per lui a nome di tutti gli Amici della Consolata."
E altre voci si aggiungono.
Altre persone, altri amici della Consolata. 
Veri. 
Che fanno spazio a Gabriele, gli parlano,  ci scherzano, gli porgono i salatini, ci aiutano a fare i pochi scalini del porticato. 
Sono gentili, sono sinceri. Non si ingozzano, non si buttano sui banchetti, non ci sgridano per la nostra ingombrante presenza.
E la rabbia, pian piano si scioglie, come un grumo, come un pezzo di ghiaccio al sole, lasciando il posto ad una sensazione di serenità e di salvezza.
Rimane una sensazione strana.
Che strani, questi uomini, cara Consolata, che prima sembrano senza speranza e l'attimo dopo ti riempiono il cuore.


Nota 1)

Giovanni 5:1-9

Gesù guarisce un paralitico a Betesda
Gv 7:19-24; 9:1-17
1 Dopo queste cose ci fu una festa dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme.
2 Or a Gerusalemme, presso la porta delle Pecore, c'è una vasca, chiamata in ebraico Betesda, che ha cinque portici. 3 Sotto questi portici giaceva un gran numero d'infermi, di ciechi, di zoppi, di paralitici[, i quali aspettavano l'agitarsi dell'acqua; 4 perché un angelo scendeva nella vasca e metteva l'acqua in movimento; e il primo che vi scendeva dopo che l'acqua era stata agitata era guarito di qualunque malattia fosse colpito].
5 Là c'era un uomo che da trentotto anni era infermo. 6 Gesù, vedutolo che giaceva e sapendo che già da lungo tempo stava così, gli disse: «Vuoi guarire?» 7 L'infermo gli rispose: «Signore, io non ho nessuno che, quando l'acqua è mossa, mi metta nella vasca, e mentre ci vengo io, un altro vi scende prima di me». 8 Gesù gli disse: «Àlzati, prendi il tuo lettuccio e cammina». 9 In quell'istante quell'uomo fu guarito; e, preso il suo lettuccio, si mise a camminare.




mercoledì 27 febbraio 2013

INNOCUI COMPITI DI ITALIANO...


Leggo sul diario:
"COMPITI DI ITALIANO:
Scrivi un breve racconto autobiografico relativo ad una tua amicizia con  una persona”.
Un classico.
Un semplice, innocuo, normalissimo compito a casa svolto nel corso dei secoli, anzi, che dico, dei millenni - a partire dagli antichi Egizi per finire agli attuali grillini - da migliaia di bimbi in tutto il mondo e in tutte le lingue. 
Niente di particolare, quindi. Le solite quattro o cinque righe in cui i bimbetti descrivono il loro pirmo amico del cuore, i primi giochi assieme, i primi litigi poi  immancabilmente risolti con un uno scambio di figurine o davanti a una tazza di cioccolata calda con panna preparata da una delle premurose mamme di turno, i primi confronti con un altro essere della stessa specie con cui si prova quel sentimento benedetto altresì chiamato “amicizia”.
Ma…peccato che a noi manchi la materia prima.
Gabriele, ancora un vero “amico” non ce l’ha.
I bimbi, specialmente quelli piccoli, delle elementari, non guardano in faccia nessuno, non sono ancora “addomesticati”, civili, etici, politically correct. Sono ancora delle bestioline, degli esseri giocosi e urlanti, che giocano, urlano, corrono, si rincorrono, a volte si picchiano, altre si sputano, altre invece si scambiano tranquillamente delle figurine o giocano a quegli affari chiamati pokemon. E il gioco è il pirmo mattone di quella amicizia.
Peccato che nessuno giochi con Gabriele.
Nessun bimbo, cioè.
Nessuno, tra i suoi compagni, con cui scambiare le figurine, giocare a battaglia navale, ai pirati o a tris. E non sto parlando di giochi che prevedano di camminare o correre, no, no, ma di giochi tranquilli, da tavolo, giochi da fare da seduti. Ma anche così, Gabriele ha i suoi tempi, le sue modalità, occorre avere un attimo di pazienza, non tanta, solo qualche secondo in più, solo una manciata di secondi in più per afferrare saldamente il soldatino, posizionarlo in trincea e sparare,  solo un soffio di vento in più per riuscire a prendere una certa figurina da un mazzo e porgerla al compagno, ecco.
Ma i bambini, quella piccola pazienza non ce l'hanno.
I  bambini sono scattanti, irrequieti, energici, non aspettano e non guardano in faccia nessuno, con o senza sedia a rotelle. Vanno dietro i loro giochi, veloci, come un tornado, e non guardano chi hanno lasciato indietro.
E Gabriele, in genere, resta, appunto, indietro.
Ed ecco allora che spesso, mentre i suoi compagni giocano a pallone o a "ce l’hai", va con i maestri a vedere un cartone animato, oppure sta in classe, sempre con i suoi maestri, a leggere un libro, a disegnare, a chiacchierare con loro.
Sì, certo, lui in teoria un amico del cuore ce l’ha, e quando lo saluta gli manda baci e abbracci…peccato che per l’altro bimbo non sia lo stesso, e Gabriele sia solo un piccolo compagno su una sedia a rotelle con cui si sia fermato a parlare un secondo di più degli altri compagni, guadagnandosene  così l’amore incondizionato e duraturo.
E quindi, appena leggo il titolo del compito a casa, mi si stringe il cuore, la pancia e anche il fegato, ma faccio finta di nulla e cerco di assumere un tono superficiale e cinguettante con Gabriele mentre gli dico con (finta) noncuranza, lanciandogli la ciambella di salvataggio: “Ah, sì, devi parlare di un tuo amico, una persona a cui vuoi bene,  che può essere un compagno, un maestro, qualunque persona…”
E lo lascio lì.
Davanti al computer con il suo tema da svolgere, da solo.
Non potevo dirgli altro, non avrei saputo dirgli altro. Lo lascio a cercare di trovare nella sua mente la soluzione all'arcano. Passano i secondi, i minuti, un quarto d'ora, mentre sento che pian pianino batte con impegno e determinazione sulle lettere della tastiera, piano, certo, irregolare, certo, ma costante, determinato.
E alla fine, mi chiama: “ fatto!”
Inizio a leggere il racconto: “Un giorno ero con mia mamma e mio papà (i miei amici) a spasso per Torino …” etc. etc.
Bravo Gabriele, mi hai fatto venire da piangere! Sei stato bravo, bravo veramente, e abile: hai aggirato l’ostacolo, e non so quanto tu te ne sia effettivamente accorto o ti sia venuto spontaneo considerare noi, i tuoi genitori, come amici, sorvolando sul fatto che tu, di amici della tua età, per il momento non ne hai.
Sorvolare..volare alto.
Bravo, Gabriele.






venerdì 22 febbraio 2013

LA PRIMA COMUNIONE

Come per ogni altro bambino, anche per Gabriele arriva il fatidico giorno.
Anche per lui,  certo, lo scorso maggio.
"Il giorno più bello della tua vita", no, si chiamava ai miei tempi, cioè circa quaranta anni fa (!), il giorno in cui "ti comunichi" per la prima volta, il giorno in cui, per chi è cristiano ma anche cattolico -cosa che non va più tanto di moda specialmente dopo scandali, dimissioni Eccellenti, maggiordomi ladri (tanto il ladro alla fine è sempre il maggiordomo), segretari strafighi modello "Uccelli di rovo" e altre leggerezze, anche la nostra Chiesa Cattolica Apostolica etc. etc. sembra un po' risentire della crisi globale - il giorno in cui, dicevo,  si assapora per la prima volta l'ebrezza di essere in sintonia con tutti i Santi del paradiso, Capo compreso, che mangi il pane di Cristo e ti abbeveri alla sorgente dell'Amore puro.
Un giorno memorabile, quindi.
Un giorno da ricordare.
Un giorno di cui  non so se in effetti i bambini di otto anni recepiscano chiaramente l'importanza e la profondità, ma di sicuro un giorno per il quale ci si prepara con due o tre anni di frequentazione di catechismo settimanale per i piccoli virgulti, puntulmente accompagnati da genitori affannati precipitatisi anzitempo fuori dal posto di lavoro,  incontri periodici in parrocchia di istruzione per i genitori medesimi, sempre quelli affannati che hanno accompagnato il pargolo scapicollandosi etc etc.., e,  per il giorno stesso, con cerimonie fra parenti e amici che diano il giusto lustro ed importantanza all'evento e che finiscono puntualmente, come si conviene appunto a questo tipo di ceromonie spirituali, con le gambe sotto il tavolo di un ristorante a cantare e battere le mani per il piccolo festeggiato.
Ovviamente anche noi, o meglio, io, ho provveduto a tutto questo.
Ho provveduto per due anni a scapicollarmi fuori dall'ufficio  per portare Gabriele a catechismo, nonostante le sue fiere opposizioni finite a volte anche con il lancio, da parte sua, del fraterno testo catechistico in faccia al compagno di corso che lo infastidiva toccandogli il joy-stick della sedia a rotelle e facendolo rovinare contro i muri dell'oratorio (bravo Gabri!:-).
Ho provveduto a cercare  un ristorante abbastanza piccolo e fuori mano, alias nel paese di nonna Giovanna, alias mia madre nonchè nonna di Gabriele (che lo guarda da lassù),  nelle Langhe, dove non fossimo  (troppo) attorniati da tavolate di amici di sposi vari o di altri piccoli comunicandi che ci avrebbero assordato e rovinato quel minimo di sobrietà che avrei voluto mantenere anche nel momento del pasto.
Ho provveduto a cercare dei vestiti da cerimonia consoni all'evento e secondo i dettami di catechisti e personale vario,  che ci avevan pregato di  ...non vestirli da cerimonia, ma manco volevo mandarlo in jeans strappati e camicia a quadrettoni davanti a Nostro Signore per la prima volta, e quindi ho cercato un abbigliamento modello Lapo Elkann.
Ho provveduto a cercare delle bomboniere che non fossero proprio bomboniere perchè "non si usano più", ma un ricordino della giornata, vuoi non lasciarlo? E così giù di setacciamento di negozi di bomboniere,  nella (quasi) disperata impresa di cercare qualcosa di sobrio  ma che non fosse proprio solo  uno straccio di juta con due confetti schiaffati dentro.
Ho provveduto...a tutto.
Veramente, mi son preparata quasi un anno, perchè Gabriele avesse una cerimonia bella, intensa, da ricordare, veramente uno dei più bei giorni della sua vita.
Mi sono preparata anche io, e il giorno è arrivato.
Tutto è andato abbastanza bene, tutto.
Gabriele è bellissimo nel suo completino blu (ma no?) con scarpe sportive, i capelli biondi tagliati di fresco con un cresta da monello tenuta su da una manta di gel, il papà, oggi presente, emozionato e la mamma (io) schizzata come sempre, i parenti puntuali, la Chiesa gremita, la funzione coinvolgente.
Solo una piccola pecca.
Ed è il momento della processione, quando tutti i bambini, in fila, si dirigono a due a due verso l'altare per prendere l'Ostia consacrata per la prima volta, capitanati e guidati  dagli instancabili organizzatori  e catechisti.
In ordine di altezza, appunto.
E allora, perchè Gabriele è il primo?
Perchè, mi chiede, mamma, devo andare io per primo, visto che io sono tra i più alti e non il più basso e quindi dovrei andare al fondo della fila?
Ineccepibile la risposta degli organizzatori: "ma perchè sei seduto, e seduto sei il più basso..."
Inutile  l'eccezione di Gabriele, che dice che da in piedi è "alto alto". Tanto in piedi non ci stai, sei su una sedia a rotelle, e quindi stai in coppia con il più piccolo del gruppo. Che, casualmente, è lo stesso che si era beccato il libro in faccia e che ti infastidiva  "a lezione"  toccandoti il joystick della sedia, cosa che tenta di fare ovviamente anche oggi in Chiesa. Oggi però, caro Gabriele, eviterei di tirargli di nuovo qualcosa in faccia, anche se tu sei alto e lui è piccolo. Ma tu sei seduto, e lui, no.


P. S. Come  è poi andato, il momento della prima Comunione? Beh, in effetti non lo so.
Come genitori del bimbo sulla sedia a rotelle, eravamo in un posto "strategico", laterale ai banchi degli altri genitori, all'inizio della navata centrale e di fianco all'altare. Peccato che, durante il momento dell'assunzione dell'ostia da parte dei bimbi, il momento clou, quello da non perdere, il "posto strategico" fosse di impiccio per gli altri fedeli che andavano a fare la Comunione ai due lati della Chiesa, e che in fretta e furia noi parenti, dietro "gentile richiesta" della perpetua di turno, ci siamo dovuti spostare la sedia che era stata piazzata nel bel mezzo del luogo strategico, facendoci largo nella marea di parenti, genitori, nonni, amici  e amiche che gramivano la Chiesa;  col risultato che, quando ritorniamo al posto per vedere il momento, Gabriele era anche già tornato lui,  dopo aver preso, assaporato e anche digerito l'ostia consacrata. Me lo son perso ma, come mi è stato detto..."tanto ci sono le foto.."


sabato 3 marzo 2012

E GIA' GRAZIE!! CHE VUOI DI PIU'?

Certo.
Certo che anche GAbriele va a scuola, l'ho detto. E' un diritto garantito per tutti dalla Costituzione, lui ci va volentieri, prende bei voti (tranne matematica, e qui siamo nella norma...purtroppo) e fa, come tutti gli scolari i suo compiti a casa.
Che vengono scritti sul diario, ovviamente.
Peccato che Gabriele abbia questo deficit motorio che gli fa scrivere delle lettere grosse come delle case nel triplo, anzi, che dico, decuplo ((?) di tempo rispetto ai suoi compagni, cosicchè, e giustamente, a scrivere i compiti a casa sul diario è il suo maestro di sostegno, altrimenti a notte fonda sarebbe ancora a scuola a scrivere i compiti sul diario. E proprio per questi motivi, Gabriele ha avuto la fortuna (tutte noi, le fortune!) di ottenere il massimo delle ore settimanali, con sostegno, perchè lo aiuti in queste piccole incombenze. Cioè tutto. Andare in bagno, lavarsi, scrivere, prendere i libri dalla cartella...cioè, lui queste cose le fa, ma ci metterebbe una vita, e quindi, giustamente, il sostengno, sorregge.
Lasciamo perdere che poi la scuola utilizzi il suo maestro di sostegno per altri bimbi che hanno avuto diritto a meno ore con tale maestro, lasciamo perdere che il suddetto maestro sia sempre assente,per un motivo o per l'altro, lasciamo perdere tutto. E torniamo ai compiti. Che, appunto, fino a qualche mese erano scritti sul diario dal maestro di sostegno o da un qualche altro maestro disponibile, ma sempre maestro.
Ma ora, da un paio di mesi, non è più così.
Sul diario mi trovo delle scritture infantili che mi dicono "studiare sul quaderno rosa i predicati nominali e verbali.". Peccato che nello zaino il quaderno rosa non ci sia.
Oppure, la cara maestra di matematica, mi rampogna: GAbriele non ha fatto l'esperimento per oggi, quello scritto sul diario! Peccato che sul diario per oggi non ci sia segnato nulla. E lo mostro alla maestra, che mi odia dalla prima elementare (affinità di carattere). Risposta della maestra.: "Ah, sì, si vede che i compagni si sono dimenticati di scrivere, o di mettergli i quaderni nello zaino..!" E poi, guardando Gabri con aria severa, Gabri che era lì tranquillo seduto (ma no?) sulla sua carrozzina a guardare la scena: " E POI GIA' GRAZIE CHE I TUOI COMPAGNI TE LI SCRIVANO, I COMPITI SUL DIARIO, EH GABRI!!!
Cretinamente annuisco.
Torno a casa
Non ci dormo la notte. Mi sento sempre quelle parole e quel tono di rimprovero nella testa "e già grazie!" E già grazie...
E' vero. Già grazie. Che pretendi di più? Te li scrivono sul diario, anzi, fanno a gara, mi dicono, per pastrocchiare sul diario di Gabri, per loro è un divertimento...poco importa poi se i compiti te li scrivano sbagliati, o non te li scrivano proprio, o non ti mettano il materiale nello zaino! Forse che un morto di fame, un barbone, può lamentarsi se per sfamarsi gli danno un tozzo di pane...ammuffito?? Certo che no, già grazie che ti tirano il tozzo vecchio, mica poi puoi stare a guardare il pelo nell'uovo e dire che quel pane cammina da solo, che ha la muffa? Già grazie che ti hanno dato quello! E idem per noi. Per Gabri. Studiare, nella mente dei tuoi maestri, deve essere un privilegio per normodotati, per te è inutile, quindi già grazie che qualcuno perda del tempo a scriverti i compiti sul diario. Sbagliati.
Dopo sonore litigate e insulti ai maestri, dai quali aspetto a breve qualche manata di denuce (con o senza "i", argh) ho raggiunto l'obiettivo di non far più scrivere i compiti a Gabri dai suoi compagni. Ho fatto capire, o così mi sembrava, che dei bimbi di 8 anni non possono fare le veci di un maestro, che non può essere affidata solo a loro l'educazione scolastica di Gabri. Scrivano pure, se vogliono, ma almeno che il maestro controlli ciò che scrivono! E' un suo preciso dovere.
Ma..cosa ho ottenuto? Venerdì mi danno in mano dei fogli fotocopiati da un quaderno di un compagno: "Sono gli appunti di un compagno per la verifica di lunedì....". Lascio perdere, non dico nulla. Arrivo a casa e guardo gli appunti da studiare. E mi viene insieme da piangere e azzannare i nullafacenti maestri. Queste alcune delle "perle" che Gabriele dovrebbe studiare, neanche corrette da uno straccio di maestro, ma passategli così, per carità: " i pesci respirano con le BRANCHE, e hanno le SCQUAME....gli insetti hanno molte ZAPE e le ali (e come la mettiamo con le formiche??). Altri hanno il PUNGILIONE". E via di strafalcioni. Ma è normale. Un bambino di otto anni, impara. Un maestro, insegna, corregge, educa.
Mi consolo, però. Se è vero che l'educazione di Gabri è demandata dai maestri ai suoi coetanei, i suoi coetanei non se la passano certo meglio: non hanno nemmeno diritto a che uno dei tanti maestri corregga loro le scempiaggini che scrivono. Anzi, vengono fotocopiate e distribuite per studiarci sopra! Ed è pure una scuola privata, dove sborso fior di soldini per dare un'educazione a Gabri.
Non ho dotti commenti da fare, solo amare considerazioni: la scuola fa schifo per tutti. E per i disabili, fa più schifo ancora.

domenica 26 febbraio 2012

Dai primati all'uomo, ovvero l'evoluzione della specie e la postura eretta.

Anche Gabriele cresce.
Come tutti i bambini, anche lui va a scuola. E gli piace pure, soprattutto gli piacciono alcune materie, come italiano e inglese, mentre ha dei problemini con matematica. Storia e geografia, invece, neutre. Senza infamia e senza lode. Ma intanto, le deve studiare. E io con lui.
Oggi ci tocca la preisotoria, gli australopitechi, gli homo e la loro evoluzione. E qui leggiamo delle cose interessantissime, che pure io avevo scordato. E cioè che un gruppo di scimmie, spinte alla ricerca di cibo, ad un bel momento (non mi chiedete quando: ho "studiato" ieri e già mi sono scordata, comunque qualche centinaio di milioni di anni fa..) si sono spostate dai boschi alle pianure e, per raccogliere più facilmente il cibo, hanno pensato bene di avere le mani libere. Cosa che prima, camminando a quattro zampe, non avevano. E invece, con la bella pensata della camminata in posizione eretta invece che a quattro zampe, queste intelligenti bestiole nostre antenate hanno ottenuto 1) di avere le mani libere per raccogliere il cibo 2) avere una visuale migliore per proteggersi dalle insidie dell'ambiente. Tutto bene ma....un certo imbarazzo, un certo malessere mi prende. Come posso spiegare a Gabriele il perchè lui in posizione eretta non ci sta? Non posso certo dirgli che è un australopiteco, non ci crederebbe, anche perchè lui è bello e biondo con occhi verdi e gli australopitechi sono brutti, piccoli e neri.
E poi sono estinti.
Non posso nemmeno dirgli che è inutile per lui tenere la posizione eretta, tanto il cibo c'è in abbondanza, e per ora c'è la mamma che glielo porge, non ha bisogno di avere le mani libere. Ma lui potrebbe rispondermi che le mani libere gli servono molto, invece, per giocare alla Nintendo, e quindi se l'accoppiata è "mani libere-posizione eretta", allora non ci siamo neanche qui.
E allora, che dico?
Lascio perdere. Tanto la domanda, non arriva. Non mi chiede perchè lui in posizione eretta non ci sta. E io, per una volta ancora, ho scampato il pericolo.


lunedì 21 marzo 2011

da "Io e Gabriele": la gita dell'asilo (maggio 2009)

Oggi all’asilo penso di aver dato il peggio di me stessa. Ma ne valeva la pena, ed anche se ho alzato troppo la voce, non me ne pento, perché ormai ho capito che in questo mondo, in questa parte di mondo, funziona così, riesce ad ottenere qualcosa solo chi urla più forte, chi si arrabbia di più, chi si dimostra più energico ed aggressivo, e così non sto nemmeno a perdere tempo adottando dei modi urbani e civili, ne ho così poco. Proprio io che ho una natura in fondo contemplativa e riservata, quasi misantropa, a volte. Eppure, ormai, sono così abituata a comportarmi così, come questa società mi ha forgiata, che la mia vera natura l’ho quasi dimenticata, e della bambina che al Valentino, il pomeriggio, aspettava che tutti i bimbi fossero andati a casa per cena per godersi le giostre da sola e in santa pace, non rimane più quasi nulla, se non il rimpianto per le cose che non ci si può più permettere. Ora sono sempre attiva, attenta, pronta, in prima fila su tutto, informata e agguerrita. E ottengo quello che ritengo sia giusto. E questa volta l’ho ottenuto per te, Gabriele, anche se a farci un po’ le spese sono stati i tuoi piccoli compagni, innocenti come te. Ma io sono la tua mamma, e ho un ruolo preciso, ruolo che spesso non viene sottolineato, tale è la potenza fagocitante della parola “mamma”, che rimanda a coccole, affetto, pappe e pannolini. Ma non è solo questo, una mamma. E’ anche e soprattutto colei che ha il dovere di tutelare chi ancora, muovedo i primi passi incerti nel mondo (non è il tuo caso, tu i tuoi passi ancora non li hai mossi, e chissà se li muoverai mai. Ma non ti preoccupare, è solo un modo di dire), non ha ancora gli strumenti per difendersi o imporsi. Significa fare i tuoi interessi, e vigilare affinchè vengano rispettati i tuoi piccoli diritti di bimbo. Di bimbo disabile. E così ho fatto. Ieri mattina, quando ti ho portato all’asilo, la tua maestra mi ha annunciato, con fare leggero: “ah, tra una settimana c’è la gita sul tram storico, ma Gabriele non può venire perché non c’è il posto invalidi, sul tram, e quindi non possiamo portarlo. O se lo tiene a casa oppure lo porta qui e lo mettiamo in un’altra sezione che non va in gita quel giorno”. Così, semplicemente. E io, altrettanto semplicemente e tranquillamente, visto che sono abbastanza lenta nei miei pensieri e nelle mie reazioni, rispondo “ok, va bene, allora”, e ce ne andiamo tranquilli a casa io e te. Poi arriva la notte. E la notte io ho il vizio di pensare, rimuginare, mettere in ordine i pensieri, oltre a dormire. E mi gira questa frase in testa “o se lo tiene a casa o lo porta qui in una sezione che non va in gita”. Ma perché? Penso alle gite che hai fatto gli scorsi anni, nel vecchio asilo: le maestre ti avevano scattato le foto e così ti rivedevo all’ agriturismo, mentre sorridente davi da mangiare ai conigli o mentre addentavi schifato una mela, oppure quando vi han portato al mare, e ti hanno ritratto in acqua in braccio alla maestra Anna, felice e sorridente; o quando, ancora al nido, siete andati in treno fino all’Acquario di Genova, e io ero preoccupatissima a lasciarti andare così lontano, in treno e così piccolo. E quest’anno, che oltretutto la gita è molto più semplice, più vicina, nel senso che non andate né in qualche agriturismo di paese, né al mare, né in altri luoghi “esotici” ma ve ne state a Torino sopra un tram, no. Quest’anno per te niente gita. A casa! O all’asilo mentre i tuoi compagni sono in giro beati a divertirsi. Virginia, Anna, Beniamino, Nizar..già, Nizar. E qui mi sale la carogna. La malinconia e la tristezza lasciano il posto alla rabbia. Ma come, a che serve allora insegnare l’integrazione a questi bimbi fin dalla più tenera età, fare i pasti che almeno un paio di volte la settimana comprendano kebab o cous cous, togliere il crocifisso dalle classi oppure ogni altro simbolo che caratterizzi un gruppo, un’etnia, una religione o una razza, se poi dimentichiamo quelli che sono ancora i più discriminati , i più svantaggiati da tutti, i disabili? Per queste creature non è valido il principio di discriminazione così spesso ostentato e sbandierato? Sono solo un peso per i compagni, per le maestre, per la società? Oppure ti hanno solo dimenticato, tu e la tua sedia a rotelle, non han pensato che forse anche tu avevi piacere di fare quella gita invece che stare chiuso in classe? Basta, ho deciso. Domani a scuola dirò tutte queste cose con calma alla maestra, sarò civile ma determinata, nel difendere quello che penso sia un tuo sacrosanto diritto alla socialità e alla non-emarginazione. E invece no. Arrivo all’asilo e, reduce da una rabbia covata per tutta la notte, appena vedo la tua maestra la investo: un fiume di parole miste a insulti, di urla, di invettive, il tutto contro la povera tapina che è rimasta sconcertata da tanta furia! Ma il succo del discorso è ineccepibile, Gabriele, ed è forse per questo che la tua maestra si è sorbita il mio torrente di parole senza ribattere, perché sapeva che, a parte la forma, nella sostanza io avevo ragione. Perché nessuno si è preoccupato preventivamente di verificare che sul dannato tram storico ci fosse la possibilità, per i disabili in carrozzina, di salire ed accomodarsi? Perché, una volta verificata la mancanza di tali elementi, non si è provveduto a cambiare gita, destinazione, mezzo? Perché nessuno ha pensato a queste cose, che dovrebbero essere abbastanza ovvie per delle maestre non più di primo pelo e che quindi, negli anni, di gite con bimbi disabili ne avranno pure organizzate! Perché? Perché si integrano, giustamente, tutti e tutto e non tu? Dove hanno la testa queste maestre? Insomma, la maestra mi balbetta allora che posso venire anche io sul tram, ti posso accompagnare io, sotto la mia responsabilità, oppure che io e te possiamo seguire l’allegra comitiva in macchina, scortare il tram di gitanti. Divento una belva: “no, Gabriele viene sul tram, con voi e sotto la vostra responsabilità, come tutti gli altri bambini!!”. Urlo, minaccio di parlare della cosa alla direttrice. E lo faccio. Prenoto un appuntamento con la direttrice per il giorno dopo. E quando entro nel suo ufficio, carica e combattiva come il giorno precedente con la maestra balbettante, lei non mi lascia nemmeno il tempo di aprire bocca. Si scusa per le maestre, è mortificata, mi dice che non darà mai l’autorizzazione a fare questa gita, organizzata in questo modo, che verrà cambiata la destinazione, il mezzo, tutto. Di scusare l’incidente, che Gabriele ha diritto ad andare in gita con gli altri e come gli altri, che non dovrà restarsene a casa. Ho vinto. Abbiamo vinto, Gabriele, ma che vittoria di Pirro è mai questa, che fa cambiare la gita tanto pregustata da ventiquattro bimbetti senza colpe e che si vedevano già con il naso fuori dal finestrino del famoso tram a causa della dabbenaggine di un paio di maestre attempate e a fine carriera, che li fa andare a vedere il museo di arte contemporanea all’età di cinque anni perché così, su due piedi, non si è trovato di meglio, una vittoria per cui ho dovuto ricorrere proprio a ciò che invece dovrebbe essere alleggerito, non fatto pesare? Insomma, che vittoria è se per raggiungere l’obiettivo di non farti discriminare per la tua invalidità, ho dovuto invece sbandierarla e urlarla?


[CA1]Gita all’asilo

martedì 15 febbraio 2011

Da "Io e Gabriele": festa di fine asilo giugno 2009

PREFAZIONE: come ogni buon/buona italiota che si rispetti, anche io avevo cominciato a scrivere un...una cosa, non proprio un libro, ecco...un libercolo, un'agenda, un diario, insomma, dove annotare gli episodi, ameni e non, capitati a me e Gabriele in relazione alla nostra "particolare" condizione di invalidi. E contavo, una volta dopo averne messi insieme abbastanza, di dare il tutto alle stampe, in qualche modo. Penso che però sia utile anche pubblicare in anticipo qualche estratto, di questo diario, su questo blog, con un post ogni tanto, di modo che se qualcuno nelle nostre stesse condizioni, magari, capitasse da queste parti e leggesse queste cose - che, vi assicuro, sono nella norma più normale nella quotidianità di un disabile - si sentisse un po' sollevato e magari, a volte, anche rasserenato.

E quindi, ecco il primo post relativo alla festa di fine asilo, nel giugno 2009.

Giugno 2009

Oggi festa all’asilo, festa di fine anno. I bimbi di cinque anni, che il prossimo anno andranno a scuola, vengono laureati con tanto di tocco e mantello, e viene dato loro anche un bel diploma. Il tutto sulle note di una nota canzone, dove le maestre, al posto di “salirò salirò”, fanno cantare ai piccoli protagonisti “crescerò crescerò in una scuola non troppo lontanaaa”. Mamme in tenuta da sera (solo alcune, nonostante fossero le 5 del pomeriggio e si svenisse dal caldo, nel cortile dell’asilo), e poi videocamere, cellulari spaziali con tanto di zoom incorporato, e, naturalmente, fazzoletti e occhi lucidi a go go. E in effetti commuove vedere il proprio pargolo esibirsi, anche se sta solo canticchiando una canzoncina facile facile; figurarsi poi vederselo già bello e laureato a 5 anni! Insomma, il momento arriva, chiamano Gabriele, e io sono pronta, da brava mamma, col mio bel cellulare in pole position. Vicino a me, una nonna “moderna” (ormai non esistono più le nonne di una volta, quelle modello candeggina ACE, per intenderci: sono tutte super carrozzate, abbronzate, labbroni modello gommone), ma con il tipico fare da classica suocera impicciona e invadente: a ogni piccolo laureato riserva a se stessa, e a me, tapina, che le sono vicino, un grazioso commentino: “ah, ma come è alta, questa qui”, oppure “ma questo, non arriva nessuno a laurearlo?”, il tutto naturalmente non tra sé e sé ma ad alta voce, così che tutti possiamo godere dei suoi arguti commenti.

Insomma, arriva Gabriele e io armeggio col dannato cellulare che si è bloccato, e mentre armeggio mi arriva, puntuale, il commento: “ah, ma è quel bimbo lì…”.

Gelata.

“Quel bimbo lì, con l’ “ah” davanti e i tre puntini al fondo, detto non con la solita aria di commiserazione o di compassione, a volte anche sincera, a cui ormai sono abituata e che a volte non è nemmeno sgradevole. No, detto con una sorta di disgusto, di seccato rammarico, della serie “ah, ma tanto è un invalido su una carrozzina, e dobbiamo pure stare qui a perdere del tempo a sentire anche la sua nomination….”.

Non ho più voglia di fare foto; ho le lacrime agli occhi e vorrei portare via Gabriele da davanti agli occhi di questa stronza. Ma voglio fare una foto a Gabriele, glielo devo, visto che con fatica e tutto sorridente, assieme alla sua maestra Elisa, si è portato pian pianino, a piccoli passetti, sul podio, e mi guarda fiero. Scatto la foto a casaccio, dove capita capita, qualcosa verrà, mentre la stronza, dopo la mia riposta “ah, sì, quel bimbo lì è mio figlio, se non le spiace” (di meglio al momento non mi è venuto, avrei potuto dirle : ”le invalidità motorie si vedono, ma pensi cosa non si vedrebbe se si potesse vedere l’interno del suo cervello, sempre che lei ne possegga uno!” ) , cerca di rimediare alla magra, anzi, anoressica figura rovinandomi il resto della festa e chiedendomi, nei pochi secondi in cui invece dovrei godermi la “laurea” di Gabriele..”ah, ,ma va a scuola il prossimo anno? ?” Vorrei risponderle, sì, perché, visto che è in sedia a rotelle deve essere anche scemo?

A volte, i miei simili mi disgustano a tal punto che vorrei chiappare Gabriele e andare su un eremo, io , lui e una capra, come nel film “Il sole anche di notte”, o come Zarathustra, andare sulla collina e guardare gli uomini-bambini col sopracciglio alzato, e non mescolarmi a quella massa insulsa. Proteggere Gabriele dagli sguardi degli stupidi, dei maligni, dei curiosi.

Ma poi ripenso alla maestra Elisa, che ha messo faticosamente in piedi Gabriele per questa festa, e se lo sta praticamente sorreggendo lei, per non farlo sentire diverso, mettendo a dura prova la sua schiena. Ripenso a Beniamino, che gli ha regalato il suo flauto preferito e lo accarezza sempre sulla testa, quando arriva all’asilo. E mi riappacifico con i miei simili.

Un po’.